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Natura

Pieve di Teco sorge alla confluenza dei torrenti Arroscia ed Arrogna, il primo proveniente dalla valle che, per Acquetico e Pornassio, sale al Colle di Nava, il secondo dalla valle che, coronata in alto da Nirasca, Trovasta, Moano, Armo, sale alla Colla d’Armo.

Ambedue i valichi, quello di Nava e quello di Armo, conducono al Piemonte, ed, in qualche modo, segnano anche la graduale linea di separazione tra la flora piemontese e quella ligure.

Il territorio delle Valli Arroscia e Arrogna, solcato dai due profondi alvei torrentizi, è assai scosceso, e ciò ha richiesto nei secoli l’immenso lavoro della sistemazione a terrazzamenti (“fasce”) dei terreni agricoli.

L’andamento delle due Valli, correnti l’una circa da Nord-Ovest a Sud-Est, e l’altra circa da Nord a Sud, assieme all’esistenza delle notevoli montagne che le delimitano (cresta Baraccone- Paròdo, cresta Teco-Forte Richermo, cresta S. Antonino-Frassinello) e facenti schermo (soprattutto in inverno) al soleggiamento, ha determinato la loro tipica fisionomia urbanistica e agricola: paesi prevalentemente edificati in serie lineare lungo strade di mezza costa sul versante a solatìo, ed analoga scelta delle colture agricole: colture più “domestiche” (olivo, vite, ecc.) sul versante soleggiato, e più “selvatiche” (legname) su quello in ombra.

I due torrenti, data la profondità dell’alveo, non dànno grandi preoccupazioni riguardo alle piene, tranne forse nella zona delle Giàire Larghe, zona peraltro particolarmente favorita dalla conformazione del letto fluviale, che ha permesso ad esempio all’antico ponte di S. Filomena di sopravvivere indenne per circa un millennio.

IL CLIMA

Il clima generale di Pieve di Teco è quello di una città di fondovalle: prevalentemente dolce e ventilato d’estate, piuttosto umido e freddo d’inverno.

Nonostante la bassa quota (m 230 s.l.m) e l’ampia apertura della Valle verso il mare di Albenga, non sono infrequenti abbondanti nevicate.

Il regime di venti prevalente è quello consueto delle brezze di monte/valle. Occasionalmente, soprattutto quando nella vicina Valle del Rodano si verificano le condizioni di insorgenza del Maestrale, anche le Valli sono spazzate da venti di caduta piuttosto impetuosi, genericamente chiamati Tramontana.

Raramente, ma con serie conseguenze, arrivano intense gelate, capaci perfino di uccidere gli ulivi: e qui il danno è grave, poiché la vita di un ulivo non si misura in anni, ma in secoli.

Ma anche in pieno inverno, se la giornata è soleggiata, la passeggiata ai Ligassòri o alla Madonna dei Fanghi offre una tiepida e luminosa parentesi.

LA FAUNA

Boschi e montagne ospitano, tra l’altro, una fauna selvatica quanto mai varia.

Oltre al diffusissimo cinghiale, ed alla lepre, vi dimorano la volpe, il tasso, ed altri musteli di minori, in particolare la piccola donnola. In fase di ritorno, recentemente avvistato in Liguria, il lupo. Comuni sono i ricci, gli scoiattoli ed i ghiri, oltre alle dannose arvicole e talpe.

I rettili, di specie varie, sono numerosi, dalla natrice al biacco, dall’orbettino alla vipera, dal ramarro, al geco, alla comune lucertola. Si favoleggiava in passato dell’esistenza del mitico “vèsperu sùrdu” (forse il basilisco?) talvolta nebulosamente descritto come “maschio della vipera”, talaltra come dotato di una testa da gattino e di piccole orecchie.

Assai varia è anche l’avifauna, sia stanziale che di semplice e doppio passo. Essa va dai piccolissimi scriccioli, regoli, fiorrancini, ai codibugnoli, alle cince e capinere, ai fringuelli, verdoni, cardellini, lucherini, verzellini, ciuffolotti, frosoni, merli, ed ai ricercatissimi tordi, nonché alle pernici, starne e ai fagiani di monte. Nei boschi ombrosi trilla il pettirosso, nei pascoli, alta nel sole, l’allodola. Non mancano, lungo le siepi e sui campanili, gli elusivi uccelli dei poeti: l’usignuolo e il passero solitario.

Anche i predatori sono ben rappresentati. Fra i diurni si annoverano gheppio, sparviero, poiana, rari pellegrini e bianconi, oltre agli immancabili onnivori: corvi, cornacchie, ghiandaie. Sulle vette più alte delle Alpi Liguri, oltre Viozene, non è raro poter vedere l’aquila reale ed il gracchio alpino.

Fra i notturni sono abbastanza comuni civetta, gufo, allocco, barbagianni (chimato tuttora, in dialetto, “sciugalàmpe” poiché si credeva che questi uccelli, abitatori dei campanili, andassero a bere l’olio delle lampade del Santissimo). Rarissimo è pure presente il misterioso e triste succiacapre.

Numerosi, nella stagione calda, i piccoli mammiferi volanti, cioè varie specie di pipistrelli.

COLORI, PROFUMI e SAPORI

Grande è la varietà dei colori. Alla tavolozza delle infinite tonalità del verde di base, si aggiunge l’argenteo degli ulivi dei pendii illuminati, il giallo intenso delle ginestre, il rosa delle valeriane, il

rosso vivo delle viti autunnali e dello scogliano, il rosso scuro della sanguinella.

Il profumo intenso ed il discreto colore violetto della lavanda accompagnano ovunque chi percorra gli alti pascoli.

Timo e origano, profumatissimi, sono di casa sui nostri monti. Ad essi si affiancano, negli orticelli casalinghi, altri tipici aromi liguri: il basilico (puro grecismo: “erba del re”), la maggiorana (qui chiamata “pèrsia”), il rosmarino (poetico nome latino: “rugiada di mare”), il nobile alloro. Essi, assieme all’aglio di Vessalico, confluiscono nella semplice e saporita cucina locale.

Castagni (ormai residuali i domestici, cioè innestati, oggi sopraffatti dai selvatici e da un esplosivo sottobosco), carpini, roveri, lecci, betulle, e, in alto, pini, abeti e larici, costituiscono il grosso della flora arborea. Nei greti dei torrenti, cresce infine l’ontano, noto per la sua resistenza all’acqua, e per il legno che, tagliato, diventa rosso.

In alto, ampie zone prative hanno fornito da sempre pascolo a greggi e mandrie. Molto raro, poiché “importato” dalla Riviera, è il pino marittimo.

Ciò spiega, tra l’altro, il fatto che, del famosissimo “pesto” ligure (almeno nella sua versione originale, quella fatta nelle famiglie) in realtà ne esistano due varietà: quella rivierasca, con i pinoli, e quella dell’entroterra, che in genere ne è priva.

VIGNE E VINI

Sui versanti particolarmente soleggiati, e favoriti dalla struttura geologica prevalentemente calcarea, esistono in ambedue le Valli terreni agricoli particolarmente vocati alla viticoltura : sono ad esempio localmente rinomati i vini di Pornassio, dei Ligassòri, di Trovasta, ecc.

Il vitigno tradizionale di gran lunga prevalente è da secoli (ed è tuttora) il cosiddetto “Ormeasco”, una varietà di Dolcetto di verosimile origine piemontese, come peraltro suggerito dal nome.

Anche il vino prodotto con queste uve (e non soltanto il vitigno) prende il nome di “Ormeasco”. A causa della vinificazione non infrequentemente fatta, ancora oggi, all’antica, cioè senza degraspatura, è (o almeno era in passato) un vino piuttosto ruvido e asprigno, ma in perfetto accordo con il paesaggio e la cucina locali.

Meno frequentemente, vengono coltivati altri vitigni, quali “Pigato”, “Vermentino”, “Moscato”, ecc. ed anche altri più rari, quali, ad esempio, il “Barbarossa”, ed è stata anche avviata da qualcuno l’introduzione del Nebbiolo, il nobile padre dei grandi vini piemontesi

La vinificazione prevalente, tuttora in buona misura a livello famigliare, è “in rosso”, cioè in presenza delle vinacce, ma è pure diffusa (ed è anzi tipica della Liguria) quella “in bianco”, consistente nel separare subito il mosto e nel farlo fermentare a parte.

Il risultato, almeno nella sua versione originale valligiana,è il ben noto “Sciacch’etrà” , il cui nome significa appunto “schiaccia e tira fuori”: è un vino particolarmente amabile, e sempre chiaro o rosato, anche se proveniente da uve nere.

Con le uve più dolci, fatte appassire sulla pianta (torcendo il picciòlo dei grappoli) o su letti di paglia, si produceva anche un eccellente Passito, che era il tipico vino della festa.

Con la torchiatura e la lavatura dei graspi si otteneva in passato un leggero vinello (chiamato “vinétta”) acidulo e dissetante, non spregevole da bere e discreto per farci l’aceto. Forse così era la “posca” delle legioni romane, la stessa che, inacidita dal calore orientale, venne offerta a Gesù morente in croce.

OLIO

Il soleggiamento favorisce pure la coltura di quella tipica e antichissima pianta mediterranea che è l’ulivo, forse introdotta nelle nostre Valli, prima del 1000, dai Benedettini di S. Pietro in Carpeneta, assieme alla tecnica dei terrazzamenti.
La varietà considerata più pregiata è la “Taggiasca” che, associata al clima temperato della Liguria, fornisce un olio di eccelse qualità organolettiche, dal gusto pieno e gentile.

La frangitura delle olive avveniva (ed avviene in parte tuttora) in piccoli frantoi a trazione idraulica o elettrica, o anche, in passato, animale.

ALTRI PRODOTTI TIPICI

Frumento ed altri cereali, legumi e verdure di uso comune e frutta, sono forniti dalle coltivazioni nelle rare zone pianeggianti, ovvero dai terrazzamenti, dove si arava con il bue (o anche l’asino) ogni piccola superficie coltivabile, anche in posizione impervia, dove il lento animale veniva pazientemente fatto salire, mentre l’aratore portava l’aratro sulle spalle.

Questo piccolo particolare è sufficiente per far capire quale durezza avesse la vita degli antichi valligiani, e spiega la tenacia delle nostre genti, il loro attaccamento alla terra, ed anche la (sudatissima) virtù (e non certo difetto) della ben nota parsimonia ligure.

Le colture cerealicole alimentavano a loro volta vari mulini, posti in vicinanza dei torrenti, ed azionati da grandi ruote ad acqua.

Cibo poverissimo, ma in tempi passati provvidenziale, era la castagna, consumata sia fresca che seccata nel tradizionale “canìssu” (cannicciato), un piccolo fabbricato in pietra con un solaio a mezz’altezza, formato da un graticcio di canne. Su di esso venivano distese le castagne, e, al di sotto, veniva acceso per vari giorni un blando fuoco.

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